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05 Dic

Cap.5-1:la stanchezza ti prende ad ogni partenza e all’inizio di ogni cammino, ma poi prendi il ritmo e non si fa più sentire

A casa, lontano dal frastuono mondano, si riprendono le forze. Perfino Baroud, il cagnolino, scodinzola felice tra Hayat e Nour. È stato trovato dalla sorella di Nabil accucciato e tremante sul tappeto posteriore della macchina. Non si è mosso per tanto tempo. Non si sa se fosse impaurito dalle facce estranee che circondavano la macchina, o se si fosse reso conto della gravità della situazione. Tutto quel che si sa è che è rimasto ad aspettare e difendere la macchina dagli intrusi ringhiando.

“Un cane deve avere qualcosa di più di un semplice sentimento di fedeltà, un valore che l’uomo non è capace e non sarà mai in grado di percepire.” pensa Nidàl.

Raccolto in un isolamento volontario, Nabil passa la mattinata in silenzio. Un silenzio che gli fa rivivere i quattro giorni passati assieme ad un eremita a Wàdi Qadìsha, circa ventun’anni prima.

Quattro giorni! Erano solo quattro giorni, ma hanno lasciato un solco profondo nella sua anima, così grande, che se li ricorda minuto per minuto, emozione per emozione. Infatti, è da allora che chiama questa valle “La Valle dell’Anima”.

Aveva circa diciotto anni. Il periodo del tutto o niente. Un’età ufficialmente maggiorenne, in cui non si ha solo l’impressione di potere, ma la certezza di dover cambiare il mondo.

Durante una discussione animata sull’età, sulla crescita e sull’esperienza dei giovani, Padre Marwan, l’assistente ecclesiastico della sua scuola gli aveva consigliato di passare qualche giorno con un eremita che aveva fatto il voto di silenzio. L’eremita viveva vicino ad un monastero scavato nelle pareti rocciose di Wàdi Qannoubine. Il giorno prima di andare là, gli aveva dato da leggere una lettera che era stata trovata in una chiesa a Baltimora, negli Stati Uniti. Nabil, a distanza di vent’un anni, ripete a memoria la prima frase: “Andate tranquillamente tra il frastuono e la fretta, ma ricordatevi della pace che risiede nel silenzio…

“Quanto vorrei essere là in questo momento! Ne ho veramente bisogno!” pensa Nabil, “Un bisogno fisiologico, come quello della fame e della sete. Chissà dov’è Rabih adesso?”

Nabil torna indietro nel tempo di ventun’anni, quando il suo amico Rabih accostò la macchina sul bordo della strada, dove non si vedeva un’anima viva.

“Siamo arrivati”, gli disse.

Una volta fuori dalla vettura, Nabil fu trafitto dal vento gelido di gennaio. Guardando verso l’alto, vide una maestosa montagna, azzurra pallida, incoronata da una fitta nuvola bianca che si avvicinava piano piano.

Sulle sue alture, si apriva una foresta verde scuro, talmente scuro da sembrare nero. Riconobbe immediatamente la foresta millenaria dei Cedri del Libano immersa in un mare di neve.

Sotto di lui si stendeva una profonda gola altrettanto scura ed assediata dalle pareti ripide delle montagne. Il filino bianco che tagliava la valle in due non era una striscia di neve, ma un impetuoso torrente che sfidava il rumore del vento. In questa gola, non si vedevano che boschetti di querce e rocce sparse. Non c’era traccia né d’essere umano, né delle sue case e né della sua civiltà.

Quando si girò per parlare con Rabih si accorse che era in compagnia di un monaco. Il religioso, che doveva accompagnarlo al monastero, era di poche parole, Rabih lo salutò di fretta fissando l’appuntamento a quattro giorni dopo ed augurandogli buona strada e soprattutto buona fortuna.

L’esito dell’augurio di buona fortuna fu una pioggia fine e ghiacciata che bagnò l’aria.

Nabil, sempre isolato a casa, chiuso in se stesso, si alza dalla poltrona, si dirige verso la biblioteca senza riflettere e senza alcuna espressione, come un robot che riceve ordini precisi. Apre un piccolo cassetto e tira fuori un foglio ingiallito dal tempo. Lo apre delicatamente, lo fissa senza leggerlo e racconta l’avventura ad un tu immaginario senza tralasciare nessun dettaglio:

“Zaino in spalle, seguii il monaco. La stanchezza si fece sentire in meno di un’ora di cammino su un sentiero in discesa. Quella solita stanchezza che ti prende ad ogni partenza e all’inizio di ogni cammino, ma poi prendi il ritmo e non si fa più sentire.

La pioggia fine e fitta non cadeva solo dall’alto, ma pioveva da tutte le direzioni. L’acqua bagnava tutto, il sentiero, gli alberi, i tronchi, la pietra, le foglie e bagnava perfino l’aria che respiravo. Delle grosse gocce ghiacciate mi cadevano sul viso. Mi colavano nel collo della giacca e nella schiena. Le mie scarpe si erano inzuppate d’acqua e producevano un rumore di suzione ad ogni passo. Il mio cappello, la mia giacca, i miei pantaloni, le mie mutande erano fradice. La mia camicia, imbevuta d’acqua e di sudore, si incollava contro la mia schiena spinta dal peso dello zaino che mi spaccava le spalle.

Il monaco era piuttosto basso e robusto. Camminava davanti a me con un passo veloce e sicuro. Si fermò per controllare un tronco caduto in mezzo al sentiero, ma non appena lo raggiunse, ripartì senza darmi il tempo necessario per riprendere le forze.

Erano passate due ore dalla nostra partenza, due ore di cammino senza sosta, lungo sentieri ripidi e sotto una pioggia incessante, e senza che mi rivolgesse una parola. Pensai perfino che lo stesse facendo di proposito, per scoraggiarmi e perché rinunciassi al mio progetto. Mi sforzai di seguirlo, accelerai il passo, ma la distanza tra me e lui non fece altro che aumentare.

Di tanto in tanto si fermava per aspettarmi, raccogliendo un fungo oppure facendo finta di raccoglierne uno.

Improvvisamente mi fece un segno con la mano per bloccarmi. Si immobilizzò di fronte ad un arbusto. Poi, un fruscio interrupe il silenzio e il battito d’ali di un uccello rosso brillante catturò la mia attenzione. Un fagiano delle nevi sfoggiò il più bel piumaggio che i miei occhi avessero mai visto. Era talmente bello che dimenticai le fatiche e i miei vestiti bagnati fradici.

Anche lui diventò più socievole, più amichevole. Non mi lasciò più indietro, di tanto in tanto mi aspettava, anzi, qualche volta, mi dava il tempo di riposarmi.

Dopo circa due ore e mezzo raggiungemmo una radura. Un giardino d’Eden si era aperto davanti ai miei occhi: c’erano alberi da frutta piantati su terrazze strette e lunghe. C’erano serre, erette sulla parete della valle, serre fatte a mano e su misura, serre ricche di verdure fuori stagione, lattuga, menta, basilico, prezzemolo, carote, pomodori, zucchine, asparagi…

Su una roccia in fondo s’innalzava una croce che attirò la mia attenzione. All’improvviso, il suono delle campane mi fece capire che mi ero sbagliato, non era una roccia, ma un monastero scolpito nella parete della valle.

I battenti di un vecchio portone di legno cedettero per farci entrare.

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